E ieri come oggi, in una città totalmente priva di strutture sportive e spazi dedicati allo sport, i ragazzi si arrangiavano come meglio potevano, e con mezzi propri. Nascevano quindi improvvisati campetti di calcio, ovunque: S.Croce, Fondo Gesù , il cosiddetto “campo delle poste”, S.Francesco, bar Milone e spiaggia delle Forche.
In questi vissuti e molto frequentati campetti, si organizzavano le nostre partite. Sentite, bellissime, combattute, e spesso interminabili. I limiti erano creati dal numeroso pubblico che andava ad assistere alla gara, tra gli incitamenti generali e la nube di polvere che si alzava al correre dei calciatori.
Per fare la porta bastavano due grandi pietre e la rete era “magicamente” immaginaria. Momenti felici quelli, ma anche di grande discussioni. Il pallone era entrato o aveva preso la traversa interna? Non c’era la rete, figuriamoci la moviola…quindi spazio alla più sfrenata fantasia…e spesso alla legge del “più forte”. Nel senso buono del termine.
I palloni venivano cuciti con lo spago e quando lo colpivi con la testa, doveva andar bene che non ti facevi male. E poi, indimenticabili,le prime scarpette con i chiodi, che quando si consumavano ti flagellavano letteralmente i piedi.
Tra gli spettatori di quei tempi, c’era un gruppo di professionisti del comitato dell’Aia che organizzava i campionati.
La fortuna di questi giovani era però che, tra la miseria, c’erano degli uomini che mettevano a disposizione del calcio tutto il loro impegno e la loro passione.
Semplici operai di famiglie povere, che spendevano parte del loro stipendio per comprare le maglie e portare la squadra in trasferta. Tra questi, figure mitiche e mai dimenticate come Totò Laino, Mimì De Meco, Carlo Turino, Cecè Sellaro, Savoia, Pulli e Bonomo Manfredi e tanti altri.
Uomini che attraverso il calcio hanno avviato il primo processo di prevenzione, in una città dove la strada regnava sovrana, e di conseguenza diventare molto pericolosa.
Questi “eroi” di un tempo che fu, hanno permesso a molti ragazzi di raggiungere obiettivi importanti, ed avviarli a campionati più prestigiosi. Ma anche chi non ha fatto poi carriera è rimasto scolpito nell’immaginario collettivo per il calcio genuino che si praticava in quei campi.
Uno di questi uomini straordinari era indubbiamente Bonomo Manfredi. Un uomo che ha dedicato tutta la sua giovinezza al calcio. Morto di tumore ai polmoni a soli 30 anni, può essere considerato indubbiamente uno dei martiri della Montedison.
La sua vita era scandita dai turni in fabbrica e dagli allenamenti della sua squadra, perché il suo grande sogno era quello di costruire la squadra che avrebbe portato il Crotone a grandi livelli.
Oggi sarebbe stato felicissimo di vedere il Crotone giocare in una serie così importante come la serie B. E sono sicuro che lui e i suoi ragazzi sarebbero stati i protagonisti di questi successi.
Bonomo credeva fortemente nel suo sogno, ed immaginava già le grandi squadre calcare l’erba dello stadio di Crotone. Ricordo come se fosse oggi, di quando ritornò dall’ospedale sulla sedia a rotelle, mi chiese di accompagnarlo a vedere giocare la sua squadra, che segui fino a quando i suoi occhi, non si spensero per sempre. Lui che ha amato i giovani fino all’ultimo respiro. Recita infatti cosi la sua lapide: “Hai vissuto e amato la gioventù, vivi ora l’eterna giovinezza”.
Pino De Lucia